Venezia82, settimo giorno. Alla Mostra arriva la regista statunitense Kathryn Bigelow e conquista subito la scena con il suo potente thriller politico “A House of Dynamite”, scritto insieme a Noah Oppenheim. Un film di stringente, drammatica, attualità che riflette sul rischio di una guerra nucleare dalle conseguenze devastanti per gli Stati Uniti, per il mondo tutto. Racconto serrato, incisivo, che aggancia per tensione e magnetismo, grazie a una regia solida, maiuscola, e a un cast di richiamo tra cui Idris Elba, Rebecca Ferguson, Gabriel Basso, Jared Harris e Tracy Letts. Targato Netflix, il film si pone seriamente in lizza per il Leone d’oro. Ancora, è il giorno del regista francese François Ozon con “L’étranger”, adattamento del romanzo di Albert Camus. Con un suggestivo bianco e nero, il film affascina per l’eleganza visiva, formale, tratto distintivo del cinema di Ozon, e per l’ottima interpretazione di Benjamin Voisin.

“A House of Dynamite” – Concorso Venezia82
È stata la prima a vincere un Premio Oscar come miglior regista. È Kathryn Bigelow, autrice statunitense nota per titoli di grande vigore narrativo e capacità di innovazione come “Point Break. Punto di rottura” (1991), “Strange Days (1995), “The Hurt Locker (2008, sei Premi Oscar compresi quelli per miglior film e regia) e “Zero Dark Thirty” (2012). A Venezia82 si presenta con un titolo potente e di forte richiamo: “A House of Dynamite”, che ipotizza un attacco nucleare agli Stati Uniti e il rischio di escalation globale. Un ottimo thriller politico di taglio psicologico scritto da Noah Oppenheim insieme alla stessa Bigelow targato Netflix. Protagonista un cast corale di attori eccellenti: Idris Elba, Rebecca Ferguson, Gabriel Basso, Jared Harris, Tracy Letts, Jason Clarke, Greta Lee, Anthony Ramos, Moses Ingram e Jonah Hauer-King. La storia. Washington, Stati Uniti. Nella Situation Room della Casa Bianca la giornata inizia come tutte le altre. A un certo punto i sistemi rilevano un missile dalla velocità anomala partito in una zona non identificata nell’Asia dell’Est diretto su suolo statunitense. Si attivano immediatamente i canali d’emergenza e in collegamento, a gestire la crisi, tutti i vertici del Paese: il presidente USA, il Pentagono, le basi militari in Alaska e nel Pacifico. Il primo obiettivo è capire la natura del missile, che si sospetta di matrice nucleare, poi stabilire come fermarlo o contenere i danni sul territorio. Dall’altro lato si aprono i canali di comunicazione internazionali con le altre super potenze che hanno arsenali nucleari…

“Sono cresciuta in un’epoca – indica la regista – in cui nascondersi sotto il banco di scuola era considerato il protocollo di riferimento per sopravvivere a una bomba atomica. Ora sembra assurdo – e lo era – ma all’epoca la minaccia era così immediata che tali misure venivano prese sul serio. Oggi il pericolo non ha fatto che aumentare. Diverse nazioni possiedono armi nucleari sufficienti a porre fine alla civiltà in pochi minuti. Eppure c’è una sorta di intorpidimento collettivo, una silenziosa normalizzazione dell’impensabile”. Kathryn Bigelow fa di nuovo centro e punta dritto al Leone d’oro, prenotando un posto in prima fila nella cerimonia degli Oscar 2026. Il suo nuovo film “A House of Dynamite” è straordinariamente potente, attuale e allarmante; ha una regia granitica, accurata e spiazzante, un copione che non presenta sbavature e anzi tiene incollati alla poltrona per tutti i 120 minuti di durata. È un film perfetto per forma, contenuto e stile di racconto. Ha tutto, compresa una carica di denuncia e impegno civile. La Bigelow punta il dito contro il livello di pericolosa incoscienza in cui il mondo è piombato in questo secondo decennio del nuovo Millennio, dove sono ripresi la corsa agli armamenti ed il braccio di ferro tra i Paesi dotati di minacciosi arsenali nucleari. “A House of Dynamite” esplora il momento, i pochi minuti, in cui la quotidianità ordinaria degenera in un incubo distopico: un missile probabilmente nucleare che rischia di impattare in meno di venti minuti su una città da milioni di abitanti come Chicago. In più, una risposta militare che può pericolosamente aprire a conseguenze inimmaginabili per il resto del mondo.Non è però solo un thriller ben governato, spezza-fiato. È anche l’acuto e profondo racconto del dramma umano, psicologico, vissuto dalle figure politico-istituzionali e militari in prima linea nell’attività di difesa, scisse in un duplice condizione: da un lato garantire la massima prestazione come servitori dello Stato, mettendo la sicurezza dei civili, del Paese, al primo posto; dall’altro, il dramma personale, il pensare a familiari (mogli, mariti, figli, genitori, parenti e amici) che si vorrebbe allertare o chiamare anche solo per un ultimo, disperato, saluto. Un dissidio interiore dove le ragioni di Stato spingono a silenziare quelle del cuore, anche se in ballo c’è la fine di tutto.Con “A House of Dynamite” la Bigelow firma un’opera di grande cinema, per stile e densità tematica, capace di lasciare allo spettatore importanti e allarmanti interrogativi sul nostro presente, sulla nostra casa imbottita di pericoloso e fatale esplosivo. A imprimere ritmo e pathos le incalzanti musiche di Volker Bertelmann ( “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, Premio Oscar; “Conclave”). Consigliabile, problematico, per dibattiti.
“L’étranger” – Concorso Venezia82
Il regista parigino François Ozon torna in gara alla Mostra del Cinema con “L’étranger”, adattamento dell’opera di Albert Camus del 1942. Avvalendosi di un raffinato bianco e nero, racconta il tormento di un giovane smarrito che si lascia attraversare dalla vita, finché non decide di direzionarla verso il fallimento uccidendo un uomo. Lo sfondo storico-culturale è quello dell’Algeria di fine anni ’30, che permette all’autore anche di affrontare gli strascichi del colonialismo francese in Africa. Protagonista l’ottimo Benjamin Voisin (ha lavorato con Ozon già in “Estate ’85” del 2020), insieme a Rebecca Marder, Pierre Lottin, Denis Lavant e Swann Arlaud. Il film sarà nei cinema italiani con Bim. La storia. Algeri 1938, Meursault è un impiegato trentenne che all’improvviso viene raggiunto dalla notizia della morte della madre in una casa di cura. Il giovane reagisce al lutto quasi in maniera distaccata; poco dopo trova conforto nella relazione con la collega Marie, con la quale però non si sente di stringere un legame stabile. La frequentazione con il vicino Raymond, dai loschi affari, lo porteranno in un girone infernale che gli apriranno le porte della prigione e una pesante condanna…

“Ho capito che immergermi in ‘L’Étranger’ – ha raccontato l’autore – significava riconnettermi con una parte dimenticata della mia storia personale. Mio nonno materno era giudice istruttore a Bône (oggi Annaba), in Algeria (…). Lavorando su documenti e archivi, e incontrando storici e testimoni dell’epoca, mi sono reso conto di quanto tutte le famiglie francesi abbiano un legame con l’Algeria, e di quanto pesi il silenzio che spesso grava ancora sulla nostra storia comune”. La filmografia di Ozon è ampia e variegata, dimostrando un chiaro talento visivo e narrativo. Tra i suoi titoli più noti: “8 donne e un mistero” (2002), “Potiche. La bella statuina” (2010), “Grazie a Dio” (2019) e “Sotto le foglie” (2024). Il regista, proprio come l’italiano Luca Guadagnino, vanta una ricerca formale, estetica, di grande raffinatezza e cura; un aspetto che emerge con chiarezza dal modo in cui dirige, da come costruisce le inquadrature. Un pregio che però spesso diventa anche “pericoloso rischio” a scapito della dimensione narrativa. È quello che accade infatti proprio ne “L’étranger”, opera di certo valida e accurata, che però rischia di sbandare per un eccessivo estetismo. Il racconto funziona, ma incede con lentezza, segnato da (inutili) dispersioni che ne compromettono compattezza e focus narrativo. Un’occasione non del tutto colta. Complesso, problematico, per dibattiti.