Venezia82, il punto. Conflitti, padri ritrovati e lampi di redenzione

martedì 9 Settembre 2025
Un articolo di: Sergio Perugini

Calato il sipario su Venezia82, con il Leone d’oro andato al regista statunitense Jim Jarmusch e al suo “Father Mother Sister Brother”, è tempo di bilanci. Cosa ci ha lascia la Mostra del Cinema firmata da Alberto Barbera? Anzitutto uno sguardo potente, incalzante, sulle frontiere in conflitto. Due i titoli che hanno messo a tema l’emergenza del presente e il suo pericoloso deragliamento: “The Voice of Hind Rajab” di Kaouther ben Hania e “A House of Dynamite” di Kathryn Bigelow.
Il primo è stato incoronato con il Leone d’argento – Gran premio della Giuria per la sua denuncia sulle vite dei civili spezzate nei territori di guerra. Attraverso il dramma della bambina palestinese Hind Rajab, la regista richiama l’attenzione sulle troppe vittime innocenti: affronta il dramma umanitario a Gaza, ma i suoi riverberi riguardano tutte le zone in guerra. È l’immagine del fallimento della diplomazia e il calpestamento dei diritti internazionali nati sulle ceneri del Secondo conflitto mondiale. Non si può morire a sei anni. Non si può morire da volontario o paramedico nel prestare soccorso. Un film che più che una posizione politica, ne assume una umanitaria. Un invito a porre fine alla logica della violenza è quanto ha sottolineato il card. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme, nel suo video-messaggio alla Mostra.
Un vibrante monito contro l’escalation bellica arriva dall’ottimo “A House of Dynamite” della Bigelow (ingiustamente fuori dal palmares), che servendosi della cornice da thriller politico ci interroga su quanto siamo consapevoli degli irreparabili rischi di un conflitto nucleare. Una partitura di 112 minuti di adrenalina, tra suggestioni angoscianti e dubbi spinosi.

A House of Dynamite. (L-R) Anthony Ramos as Major Daniel Gonzalez and Abubakr Ali as Specialist Dan Buck in A House of Dynamite. Cr. Eros Hoagland/Netflix © 2025.

La Mostra ha puntato il dito anche su altri fronti scivolosi del nostro oggi, come la crisi del mercato del lavoro e l’incremento inarrestabile di nuovi poveri. Due titoli in evidenza: il francese “À pied d’œuvre” di Valérie Donzelli, premio per la miglior sceneggiatura, e il sudcoreano “No Other Choice” di Park Chan-wook, purtroppo senza riconoscimenti. Con tono misurato e gentile, mai urlato, la Donzelli ci racconta le vicissitudini di un quarantenne scrittore che pur di poter pubblicare i suoi romanzi accetta una girandola di lavori saltuari (giardiniere, conducente, svuota cantine, ecc.) recuperati tramite app online e pagati miseramente. Una caduta nella (affollata) povertà, raccontando la grande dignità del protagonista e anche del suo mettere a fuoco l’importanza di una decrescita economica consapevole davanti a logiche capitalistiche e consumistiche che stanno portando la società fuori rotta.
Servendosi invece della commedia nera, grottesca, il regista cult Park Chan-wook dà voce alla disperazione di chi perde il posto di lavoro, amplificandone paure e deliri. Il protagonista di “No Other Choice”, dopo il licenziamento dall’azienda e colloqui fallimentari, ricorre a una soluzione accecata dalla follia: eliminare i possibili competitor che concorrono al suo stesso posto di lavoro. Un atto di ribellione insensato e disperato, reso con umorismo irriverente e affilato, che apre però a profonde suggestioni sul mercato del lavoro, sulle difficoltà di ricollocamento quando non si è più giovani, ma soprattutto sull’avanzamento tecnologico e l’intelligenza artificiale. Una riflessione emersa con urgenza al Lido anche in occasione del Premio “Robert Bresson” al regista Stéphane Brizé, consegnato dal Segretario Generale CEI Mons. Giuseppe Baturi.
A Venezia82 è andata in scena anche la famiglia e le sue difficoltà. Di questo ci parla il film di Jarmusch, “Father Mother Sister Brother”, incoronato con il Leone d’oro. Un racconto apparentemente “leggero”, puntellato da un umorismo brillante e irriverente, che però schiude suggestioni acute sull’incapacità di mostrarsi con verità nel dialogo genitori-figli. Una incomunicabilità dettata dalla paura del giudizio o forse dal timore di arrecare delusioni. Tre micro-storie, più o meno incisive, che Jarmusch dirige con il suo stile riconoscibile. Un Leone che premia l’autore più che la vis narrativa dell’opera.


Filo rosso di molti titoli è la figura del padre, assente o ritrovata. È quanto ci propone Paolo Sorrentino con il suo riuscito “La Grazia” – meritatissima Coppa Volpi per Toni Servillo –, dove un presidente della Repubblica meticoloso e inappuntabile, prossimo allo scadere del mandato, ripensa al tempo trascorso servendo lo Stato, per il quale ha messo in secondo piano i propri affetti. Un film che mette a tema l’amore e il coraggio di saper ritrovare la via del dialogo, la tenerezza perduta. Un padre che si guarda allo specchio e si accorge di aver perso il tempo della vita più prezioso è quello che ci propone anche Noah Baumbach con “Jay Kelly”. George Clooney interpreta con classe un divo di Hollywood sulla sessantina che d’improvviso si accorge che la vita non è un set, che non ammette ulteriori ciak per scene venute male. Uno sguardo dolcemente malinconico che apre però a opportunità di riparazione.


Giocati tra paternità e riparazione, addizionati da riverberi e simbolismo religiosi sono “Frankenstein” di Guillermo del Toro ed “Elisa” di Leonardo Di Costanzo. Con la rilettura del classico di Mary Shelley, del Toro ha rischiato seriamente di vincere il suo secondo Leone d’oro (il primo ricevuto per “La forma dell’acqua” nel 2017): un racconto fosco e maestoso dove mette in scena anzitutto la presunzione dell’uomo – il medico Victor Frankenstein – di poter fare a meno di Dio, provando a governare le regole della vita e della morte, ossessionato dal suo lavoro e dai suoi obiettivi. Vero guadagno dell’opera, però, è la prospettiva sul “mostro”, sulla creatura-figlio di Victor cui viene imposta l’immortalità. Un “mostro”, in verità, che rivela grande umanità, l’unico a saper comprendere e dar prova di gentilezza, capace di abbracciare perdono e misericordia.
Infine, “Elisa” di Leonardo Di Costanzo, una sorpresa a Venezia82, premio cattolico internazionale Signis. Una storia cupa, drammatica, dove trova posto in ultimo un orizzonte di speranza e possibile redenzione. È il cammino di una giovane donna rea di omicidio (ha ucciso la sorella) che in carcere, grazie anche a una struttura detentiva che promuove attività formative, trova il coraggio di affrontare i rimossi, le verità sottaciute e negate, liberandosi così da gravosi fardelli e predisponendo il suo animo seriamente al cambiamento, a una possibile redenzione. Accanto a lei un padre attento e premuroso, incapace di lasciare sola la propria figlia, anche se colpevole di uno dei crimini più indicibili. Un amore che cura e salva.

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